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  I MIEI LIBRI - SEGRETERIA DEL CAOS - Testo
   VESPE E CANNONI             

VESPE E CANNONI
( Cronaca di una battaglia )

L’imprudente vespa che per ragioni imprevedibili, secondo un consolidato concetto di prevedibilità, e contro ogni regola dell’istinto di conservazione, certamente riferibile anche agli insetti, si immischiò nella virulenta brutalità della battaglia, isolata dallo sciame da un impertinente e inatteso refolo di vento, non avrebbe comunque mai avvampata una reazione progressiva e irreversibile di tali proporzioni se l’artigliere francese intento nel posizionamento del suo obice non l’avesse allontanata con un gesto impaziente della mano. La vespa più spaventata che offesa, disorientata dal gesto improvviso dell’uomo che creò un vortice di pericolo intorno a lei, si abbandonò all’aria andando a sbattere contro l’artigliere: proprio poco sotto la palpebra dell’occhio destro che tolse, non solo per quell’attimo, la vista al militare mentre stava sparando il distruttivo proiettile contro il nemico prussiano.

Il dolore e la sorpresa dell’uomo furono tali che portando la mano all’occhio leso, e rovesciandolo verso il cielo dove i venti ammatassavano nubi e le sfilacciavano a piacimento senza per questo contraddire le previsioni meteorologiche, già abbastanza esatte anche in quell’epoca, e che erano state ritenute idonee ad operazioni militari, colpì involontariamente il puntatore dell’obice modificando radicalmente la direzione della traiettoria balistica e esplodendo il proiettile proprio nel cuore della cavalleria francese che stava caricando le posizioni prussiane: generando un grande scompiglio in tutto lo squadrone composto da cavalieri scelti reduci da molte vittorie, e in particolare abbattendo, anche, l’ufficiale di collegamento, l’unico che avesse avuto istruzioni precise dal comando generale appostato sulla collina in osservazione delle operazioni militari, il cui svolgimento si stava preannunciando positivo e coerente con le previsioni strategiche, e dove la vista dell’esplosione fratricida fece crollare per un definitivo malore il giovane generale assai stimato che stava conducendo le mosse progressive della battaglia sotto diretto controllo dei senatori del Comando Supremo.

Un grande scompiglio disperse la cavalleria francese che proseguì l’attacco facendosi decimare dalla efficientissima artiglieria prussiana e dai fucilieri i quali poi si posizionarono al coperto delle carcasse di cavalli e cavalieri abbattuti, nel fronteggiare il disordinato attacco della fanteria francese, comandato dai generali in un disperato tentativo di riportare le sorti della battaglia in favore del proprio esercito.

In breve lo scoramento fu totale, non tanto per l’andamento della battaglia, che poteva ancora presentare delle possibilità di vittoria per i francesi, quanto per il disordine e il caos dell’armata francese, che solo pochi giorni prima marciava in perfetto ordine di parata lungo le strade prussiane intimorendo gli occhi nascosti dietro le finestre chiuse, manifestato fin da poco dopo l’inizio delle ostilità in quella ampia piana circondata da basse colline giudicata dai generali luogo ideale per sconfiggere il meno numeroso e male equipaggiato esercito prussiano.

I francesi si ritirarono inseguiti dalla cavalleria teutonica che inflisse nuove perdite all’avversario fino ad ottenere una definitiva vittoria e invertendo l’esito della guerra in corso da alcuni anni con grande profusione di mezzi e uomini, e rassegnando i due stati nemici, poi felicemente alleati, a sedersi al tavolo delle trattative nelle quali la Francia fu costretta a rinunciare a molte delle pretese maturate sui campi di battaglia con sacrificio di molti suoi giovani soldati.

Solo io conosco quanto vi ho narrato, solo io so che molti avvenimenti della Storia, celebrati da generazioni di studiosi e politici, in realtà furono frutto del caso, o meglio di quella parola formata dalle stesse lettere: il Caos. Solo io so che ogni anno da quasi trecento anni, quando in Sassonia viene rievocata la vittoria al cospetto di eredi dei soldati che parteciparono o morirono nella cruenta battaglia, molti anche provenendo dalla Francia, e un effluvio di fiori e marmi ricopre i sedimenti di ossa e metalli trasformando il luogo in presidio permanente per la pace, una lapide dovrebbe essere eretta anche a ricordo dell’inconsapevole vespa che con il suo atto capovolse le sorti della battaglia, della guerra, della Storia. Ma non chiedetemi come e perché, sarei costretto a raccontarvi mille altre storie per le quali potreste rivolgermi le stesse obiezioni e dunque non finiremmo mai…: io di raccontare, voi di leggere, in un caos indescrivibile di storie, domande, perplessità, destinate poi, credetemi, ad essere cancellate dal tempo…

L’unico dato certo che posso confermarvi senza ombra di dubbio è…non sono io quella vespa…


 
  LETTERA AL PRESIDENTE DELLE FERROVIE             

LETTERA AL
PRESIDENTE DELLE FERROVIE

Caro Presidente, mi concedo il tono affettuoso e confidenziale conoscendo che anche lei è originario della mia stessa terra dove sono nato, e dove vivo ancora, nel paese dimenticato da Dio e dagli uomini di Rocciamalumba. Nonostante tutte queste dimenticanze, forse per un errore o una necessità di tracciato, al tempo della costruzione della ferrovia che unisce il nostro bel capoluogo di regione con la città dove lei è nato, fu inopinatamente prevista una stazione a pochi chilometri da Rocciamalumba che avrebbe collegato alla ferrovia non solo il mio paese ma anche l’altro, Vicoperduto, distante circa cinque chilometri.

Quindi nonostante tutto abbiamo una stazione ferroviaria (e un capostazione a mezzoservizio con l’altra stazione di Rio Asciutto) dove però soltanto due, tre convogli al giorno sostano per i pochi abitanti che utilizzano il treno, preferendo, gli altri, la comodità dell’auto o del servizio di corriere molto più frequente sia per recarsi nel capoluogo sia per altre città della regione. Nessuno altro passeggero osa scendere nella nostra stazione ignorando le bellezze paesaggistiche, i ruderi di un castello medievale, una cisterna romana di una villa del secondo secolo a.c. della quale, purtroppo, è rimasta, appunto, solo la cisterna, ma che recenti indagini archeologiche hanno ipotizzato la presenza di ulteriori reperti edilizi che meriterebbero di essere scoperti dal manto di terra e detriti che li nasconde. Tuttavia molti sono i motivi che giustificherebbero una visita turistica a Rocciamalumba o anche a Vicoperduto dove, certamente saprà, vi è un ossario della Prima Guerra Mondiale che custodisce i resti di molti morti della nostra regione per l’estremo atto unitario del nostro amato Paese.

Ma non le scrivo per documentarla su notizie delle quali sarà sicuramente già adeguatamente informato. La disturbo per una richiesta che a mio avviso consentirebbe un minimo di attenzione ai due paesi vicini e sicuramente potrebbe tonificare la vita economica della zona notoriamente legata e condizionata dalle scarse risorse agricole e dalla quale, ad ogni stagione, le corriere portano via un altro scaglione di nostri figli: alcuni per il servizio di leva, altri per università lontane. E lei sa che un’alta percentuale di questi nostri figli per un motivo o un altro difficilmente ritornano al paese da cui sono partiti, preferendo insediarsi, a volte in condizioni di indigenza insopportabili e che nei loro borghi di origine non dovrebbero subire, in località del centro o del nord dove, apparentemente, la vita è considerata migliore.

Io sono uno dei pochi tornati sia dal servizio di leva, svolto in una città del nord vicino ai laghi, sia dal corso universitario conseguito nel capoluogo di regione dove attualmente insegno latino in un istituto magistrale. Ma ogni sera ritorno al mio amato paese con uno di quei pochi treni che hanno il coraggio di fermarsi nella nostra stazione.

Appunto in questa stazione, peraltro ben indicata da cartelli, di quelli azzurri con il nome della località scritto in bianco che consentono di verificare al viaggiatore distratto dove il treno si sia fermato, o più spesso, da dove stia transitando, oltre questi cartelli moderni di recente collocazione, con il nome non più in stampatello bensì in un corsivo di dubbio gusto (mi permetto di sottolineare), ve n’è un altro, posto in testa all’edificio fatiscente della stazione (che, mi creda, Caro Presidente meriterebbe opere di restauro), di quelli, credo, in uso negli anni cinquanta: lettere bianche in stampatello attaccate su sfondo nero, che per l’incuria del tempo e degli uomini ha perso alcune lettere della denominazione. Attualmente un viaggiatore che non notasse i cartelli più recenti e vedesse soltanto quello, appunto, in questione, leggerebbe il nome della località in Amalum.

E molti lo hanno letto proprio in questo senso, non avendo poi avuto il conforto di correggere il nome con la vista degli altri cartelli: e questo equivoco inaspettato, modificando di fatto la denominazione del paese in un nome vagamente di origine latina, incuriosisce…e molto!

Ebbene, lei non ci crederà, ma da quando il nome della nostra località è erroneamente letto per Amalum molti sono i turisti che scendono dal treno e decidono di visitare i paesi, e molti di più sono coloro che ritornano in auto o in corriera per la stessa ragione riversando, oltre alla loro gradita presenza che ravviva le due località, un consistente ritorno economico (per usare un termine ormai in uso anche nei rapporti sentimentali, mi conceda la digressione).

I due paesi, similmente agli individui che ritrovano serenità nella vita con un intervento di rinoplastica o di chirurgia estetica, sono come rinati: molte le attività turistiche avviate anche da figli dei figli che sono tornati ai paesi di origine; nel frattempo altre scoperte archeologiche e la valorizzazione di ulteriori bellezze paesaggistiche hanno arricchito il potenziale godibile da un turista che era, e a maggior ragione lo è adesso, di notevole interesse.

Caro Presidente, a nome mio personale, come Presidente della locale Proloco (che associa nella sua attività promozionale entrambe le località), e a nome degli abitanti dei due paesi, con il tacito consenso della autorità pubbliche che avrebbero esse stesse dovuto formulare questa richiesta ma che per motivi che mi sono rimasti oscuri hanno deciso di non inoltrare direttamente, le chiedo di non correggere il vecchio cartello e di uniformare al nome attualmente leggibile di Amalum tutti gli altri e più moderni cartelli (magari con il classico stampatello), in modo che la località possa continuare a beneficiare dei vantaggi che questa inopinata casualità gli ha concesso.

Naturalmente a nome di tutto il Popolo dei due Paese le garantisco che la collettività è disposta ad assumersi tutti gli oneri economici necessari per soddisfare la nostra richiesta, nel caso che questo potesse essere motivo di ostacolo per l’Amministrazione da lei presieduta.

Certo che vorrà accogliere la supplica di un suo conterraneo, da Amalum, la saluto fraternamente…


 
  E improvvisamente volò il giornale...             

E IMPROVVISAMENTE VOLO' IL GIORNALE...

L’anziana donna chiese se l’autobus sul quale era faticosamente salita fosse il numero venti. “No signora, questo è il diciassette!”, rispose un tale alzandosi da sedere e offrendo il posto mentre la vecchia brontolò qualcosa come a rimproverarsi per aver sbagliato autobus ancora una volta ma anche imprecando al medico, del quale mugolò le generalità almeno quattro volte, che anni addietro gli aveva rovinato il femore con un’operazione sbagliata imprigionando la sua già claudicante vita, e pesticciando e sgomitando tra i distratti passeggeri si accostò alla portiera per scendere alla fermata successiva. Nel suo incomprensibile bofonchiare trapelava un qualcosa di fatale, un estremo e indissolubile dolore, riferito non tanto all’errore dichiarato, quanto ad una interminabile e concatenata sequenza di disguidi e tribolazioni che a suo dire - si poteva intuire, cercando di connettere lo smozzicato borbottio - avevano minato la sua vita trasformandola in qualcos’altro: ma è vita questa!..., era la ricorrente invocazione con la quale infarciva il suo gracchiante lamento.

Così tutti i giorni, tra un errore e l’altro, la donna andava e tornava dal mercato centrale, situato nel centro della città tra pretenziosi palazzi rinascimentali brulicanti di silenti turisti asiatici estranei alla sanguigna concitazione del luogo, gabellando il biglietto dell’autobus che evidentemente non possedeva, o non voleva obliterare (per usare il termine codificato nel linguaggio pubblico dall’Azienda Municipalizzata dei Trasporti); e in tutta questa altalena di salite e discese da un autobus all’altro, come in un ingarbugliato gioco dell’oca, la donna si stancava assai e perdeva molto tempo, ma ciò gli consentiva di risparmiare le lire necessarie per acquistare il quotidiano cittadino che non leggeva per motivi che sarebbe assai complicato spiegare, e che niente aggiungerebbero o toglierebbero alla vicenda, ma possedendolo, lo storico quotidiano cittadino fondato nel lontano 1757, sembrava restituirgli quella dignità che per altri e molteplici aspetti percepiva aver disciolta nel lento attraversamento della sua misera vita in quella citta adesso fotogrammata nei cristalli dei finestrini rievocando, nella monotonia della somiglianza, un film già visto; immagini che riacquistano originalità nei nascosti dettagli ogni giorno vitalizzanti questo vecchio e fatiscente ammasso di mattoni e cemento.

Finchè una mattina, replicando il teatrino che la riaccompagnava lentamente verso il suo quartiere alla periferia della città, fu fermata da due zelanti controllori dell’Azienda Municipalizzata dei Trasporti Pubblici, di quelli che sovente salgono sugli autobus per verificare la regolarità dei biglietti dei passeggeri, e l’anziana donna cercò di dare una qualche spiegazione alla mancata obliterazione del biglietto che aveva estratto da una tasca dell’informe soprabito, ma non seppe rispondere alle contestazioni dei due uomini che confidarono di osservarla ormai da diversi giorni sospettando che il suo salire e scendere da un autobus all’altro nascondesse la volontà di non pagare il servizio pubblico, e non avendo ormai alcun dubbio riguardo la recidività della donna, dovevano sottoscrivere il verbale di contravvenzione e le chiesero un documento d’identità mentre tra i viaggiatori dell’autobus nacque un insistito e bisbigliato dibattito tra chi affermava che se ogni tanto non si colpisse con ammende qualcuno dei furbi che non pagano il biglietto, l’azienda dei trasporti che è un bene collettivo finirebbe per andare in malora e altri replicavano ironicamente che l’Azienda Municipale era sempre stata in gravi difficoltà di bilancio e non certo per colpa di coloro che non pagano il biglietto sull’autobus, e che comunque era sproporzionata l’umiliazione inflitta dai due controllori all’anziana donna. E mentre ella s’ indaffarava di trovare il documento d’identità che forse poteva aver dimenticato a casa, uno dei due minacciò di chiamare una pattuglia di polizia con il telefonino d’ordinanza e che l’avessero identificata loro in questura, consentendo poi all’Azienda di elevare la giusta contravvenzione il cui ammontare equivale al costo di cento biglietti d’autobus: così come ammonisce una locandina affissa su tutti i mezzi pubblici.

Appena si aprì la portiera per la discesa di alcuni passeggeri, alla fermata in prossimità di una grande piazza ovale perimetrata da alti platani sui quali continuano perversamente a fare nido superstiti volatili stanziali, e al cui centro una enorme statua in pietra raffigurante un martire della Chiesa ammonisce sul vero senso della vita, in una sorta di memento mori nelle fiamme stilizzate sul corpo del monaco, l’anziana donna si catapultò giù per i due scalini balzando sul marciapiede con una agilità insospettabile in un soggetto della sua età e anche i due controllori scesero velocemente inseguendo la donna che a pochi metri di distanza tentò un improvviso e rischioso attraversamento della strada, sulla quale vi è un continuo transito di autobus dell’Azienda Municipalizzata per il Pubblico Trasporto, per raccogliere il giornale che gli era volato via...


 
  Scuola di ballo classico             

SCUOLA DI BALLO CLASSICO

Non avrei mai immaginato che all’estrema periferia della città, dove fino a pochi anni fa la piana s’imputridiva in maleodoranti acquitrini infestati da varie specie di insetti, involontari portantini di organismi patogeni, e dove l’uomo si guardava bene dall’avventurarsi: salvo alcuni pescatori di anguille e cacciatori di volatili endemici a quell’ecosistema (definizione di recente attribuzione, prima il luogo veniva genericamente chiamato pantanaio), e dove ora si addensano rumorosi alveari umani in un reticolato cicatrizzato di erba ingiallita, (appunto non avrei mai immaginato) ci fosse una bella villa seicentesca: dimora per secoli di un casato nobiliare al centro di un esteso e suggestivo parco qualificato dalla presenza di esemplari ultracentenari di monumentali alberi sui lati di stagni punteggiati di ninfee, dove l’entusiasmo dei naturalisti ha voluto riprodurre la palude che un tempo infettava tutta la piana: allora guardata con ostilità anche per le malattie di cui era incubatrice, oggi con il rimpianto di un ambiente naturale ormai del tutto estinto escluso, appunto, quei tre laghetti sulle cui sponde cartelli didattici indicano le specie di flora e fauna che ancora sopravvivono in quell’ambiente.

In uno dei grandi prati che interrompono la vegetazione e l’area riproducente il nostalgico acquitrino e dove il sole cominciava a distendersi giocando sui riflessi dell’erba ancora umida della brina notturna, vi erano due tende di quelle da campeggiatori, separate da un tavolo su cui era appoggiato un potente aggeggio per la diffusione della musica: uno di quelli che a volte si notano sulle spalle di giovani schiamazzanti negli stretti e rimbombanti borghi cittadini e che infastidiscono le stanche pietre superstiti alla furia degli uomini. Un emiciclo di sedie, non tutte occupate dai pochi spettatori, si raccoglieva attorno ad un improvvisato palcoscenico formato dalle tende e dal tavolo; sedute in ordine sparso alcune coppie abbigliate in modo bizzarro: immobili, come variopinte porcellane di Capodimonte, attendendo il via del maestro, presumibilmente di ballo, che appoggiato al tavolino, prima dava alcune indicazioni di figure da eseguire (e ciò esemplificato con ampie e rotatorie evoluzioni delle braccia), poi detonava l’impianto e la musica irrorava il luogo e le coppie scattavano in volteggi armonici di ballo classico in un delirio di colori simile a un caleidoscopio animato sullo sfondo del verde risvegliato dal sole. Quasi subito il maestro interrompeva la musica e urlava mimando suggerimenti e movimenti, correggendo quelli che erano mancati della necessaria perfezione secondo canoni codificati di ogni particolare ballo classico. Era più il tempo dell’attesa che non quello in cui lo spettatore poteva dilettare lo sguardo e l’udito con la grazia e l’armonia della musica e del ballo, ma nonostante questo gli spettatori assistevano immobili ed attenti rapiti dallo spettacolo cui erano partecipi, senza nascondere nei malcelati brevi commenti, improvvise esclamazioni, un desiderio latente del quale non avevano mai avvertito la necessità.

Mi soffermai ad osservare una grande acacia di fianco ad un cipresso calvo e lessi attentamente i cartellini didascalici che diligentemente dettagliavano la morfologia della pianta, la sua epoca di origine e le zone della terra nelle quali cresceva spontaneamente. Poco oltre questo gruppo di vecchi alberi, quasi quattro secoli, fin dalla costruzione della Villa che il Marchese volle in quel luogo come tributo per la sua grande passione per la caccia ai volatili, ma che aveva desiderato circondare di un’oasi verde emulando le grandi dimore che nel periodo venivano costruite per le varie e intrecciate nobiltà europee, alcuni uccelli acquatici giocherellevano tra loro con grandi balzi nell’acqua stagnante del laghetto vivacizzata dai loro movimenti: ignari di una grande biscia che in agguato vicino ad un sasso nei pressi della riva opposta del laghetto attendeva che una preda fosse alla portata della sua aggressività. Era il segnale, seppure in una progettata cattività, di una irreversibile primordialità di lotta per la sopravvivenza come del resto siamo usi vedere nei molti documentari sulle savane africane che la televisione trasmette in continuazione: quasi a emendare le colpe dell’uomo di fronte al grande merito dell’umanità nell’aver abbandonati simili meccanismi di sopravvivenza: o comunque di averli depurati della cruda evidenza.

La musica crepitò di nuovo chiassosa con note di un celebre tango che il maestro ballò da solo per mostrare agli allievi movimenti e ritmi adeguati per armonizzarsi alla grazia della musica: sembrava che volasse tanto le gambe si levavano da terra e vi ritornavano con la leggerezza di un volatile: non certo quelli che avevo notato nel laghetto che al deflagrare delle prime note schizzarono dall’acqua in un volo sguaiato e chiassoso che peraltro li salvo dalla biscia in agguato.

Una giovane e graziosa ragazza si alzò dalla sedia e raggiunse il maestro al centro di quell’improvvisata area da ballo e, unendosi al maestro nel tango con la stessa leggerezza e grazia insieme completarono tutta l’aria musicale tra gli applausi degli altri e del sottoscritto che in quell’applauso concentrava la delusione, mai risolta, di non saper ballare, pur avendolo desiderato per tutta la vita. Infatti non ero mai riuscito a ballare in maniera coerente con la musica e le codificate movenze di ogni particolare ballo classico, il ballo era sempre stato un meschino espediente per appoggiare il corpo a quello di una donna preoccupandomi soltanto delle sensazioni che il contatto suscitava e disinteressandomi dell’estetica dei movimenti o di come questi dovessero armonizzarsi con la musica … E non avevo mai imparato a ballare, nel senso tecnico del termine, così come non sapevo cantare, così come non sapevo fischiare…: un vuoto esistenziale, un buco nero della personalità che ancorchè non grave, e che per molti altri non avrebbe davvero costituito un problema, mi opprimeva da sempre con un senso di incompiutezza, di inabilità alla vita…: forse alla stessa maniera con cui all’uomo manca il volo, possibile a tante altre specie animali.

Quasi che avesse improvvisamente colto le mie riflessioni, un uomo si alzò dalla sedia iniziando a cantare con una voce bellissima e una intonazione perfetta rispetto alla musica, incoraggiato dal maestro che sorridendogli e incentivando la velocità delle figure quasi l’obbligò a continuare nel melodioso canto che zittì il brusio umano e animale del luogo. Una giovane e bella ragazza si alzò e guardando oltre la mia testa, verso gli alberi più alti, cominciò a fischiare facendo da controcanto al felice canto dell’uomo. La musica, il canto, il fischio in controcanto, si fusero in una raffinata melodia che difficilmente si ha l’opportunità di ascoltare e che consentiva al maestro, visibilmente soddisfatto, e all’allieva sorridente di felicità, di scivolare, quasi volare sull’erba umida appena mossa da una leggera brezza nel frattempo comparsa quasi a volersi unire all’insieme.

Tutto questo continuò per circa un’ora che mi rese gioioso per l’opportunità del luogo che non conoscevo, della musica e del ballo che in vita mia non avevo mai visto eseguire in maniera tanto perfetta. E, soprattutto, questo non mi cagionava rimpianti di sorta per non saper ballare, cantare o fischiare, era una felicità oggettiva che s’inseriva nel mio umore ed era come se anch’io in quel momento sapessi cantare, ballare e fischiare… Infatti, mentre un autobus infrangeva l’equilibrio del luogo con la manovra di accosto al marciapiede fuori del parco, e lo intravidi da una smagliatura tra le piante, corsi a passo di danza sul prato seguito da un’altra giovane e bella ragazza che si alzò correndo verso di me e abbracciandomi nella guida di un tango straordinario che non avrei mai sospettato di poter eseguire in qualche modo; istintivamente cominciai a cantare il motivo della canzone con un’intonazione che mi sorprese, ma la sorpresa maggiore fu il socchiudere le labbra in un fischio che si unì armoniosamente al controcanto dell’altra ragazza: tutti applaudirono il maestro, le ragazze, il cantante e il sottoscritto per la grande rappresentazione di musicalità e armonia che offrivamo al pubblico nel frattempo gonfiatosi di altri visitatori del parco. E anche un gruppo di bambini con le madri applaudirono tentando di imitare le figure di quel memorabile ballo sull’erba di un prato ancora bagnato per la brina della notte.

Alla fine del motivo il maestro si staccò dalla ragazza baciandola su una guancia, cosa che anch’io feci staccandomi dalla compagna di ballo, e richiamò tutto il gruppo indicando l’orologio verso un qualche ritardo.

Si raggrupparono raccogliendo le proprie cose, e salutando i presenti, con gesti plateali delle braccia, si diressero verso l’uscita del parco dove un gruppo di anziani leggeva e commentava ad alta voce le apocalittiche notizie dei quotidiani della mattina.

L’autobus era per il gruppo, vi salirono ordinatamente sempre nel brusio di una grande felicità, e il rumoroso automezzo ripartì offrendosi per un attimo in tutta la sua fiancata tra il diradarsi degli alberi lungo il perimetro del parco: Centro Riabilitazione psichiatrica e Medicina della Mente vi era scritto in caratteri grandi sulla fiancata al di sotto dei finestrini dai quali salutavano i membri della Scuola di Ballo.



 
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