Fin dall’inizio il libro Il cane con la cravatta di Paolo Codazzi edito da Mobydick provoca nel
lettore la curiosità della pagina successiva il che è un
buonissimo segno. Quello che via via colpisce è l’approfondimento parallelo per la persona e l’ambiente in un binario che
porta lontano.
Ogni pensiero, ogni atto e ogni accadimento sono veicoli per affrontare i grandi temi, la morte e la vita, nella
rifrazione d’una domanda senza domande che è la curiosità
d’indagare. Tutto ci avvia a sentimenti nei quali ci ritroviamo. Le
immagini sono spesso simboliste e metafisiche e si alternano con le
descrizioni d’un quotidiano di quartiere, come se la lettura ci
accompagnasse ad entrare ed uscire dalla città, una Firenze onirica
nel cerchio d’un Camposanto dove il macabro è guida per riflessioni distaccate ma indaganti o concreta in descrizioni di
architetture. L’interpretazione della città è senza filtri né lascia adito a fraintendimenti. L’osservazione si
trasmette in precise sentenze fino al disincanto d’una ricerca
psicologica del protagonista intervallata o districata in precisi
riferimenti storici. Un romanzo dove la cultura e le informazioni
scorrono facilmente così come dovrebbe fluire la cognizione dell’esserci qui e ora e l’indagarsi portare a conoscenze di più
vaste interrogazioni (bello il paragone riferito alla madre
“quasi un Cristo, uno dei tanti che s’aggirano ignari e
inconsapevoli sulla terra, senza alcuna pretesa di resurrezione”) fino
a tentare “Il Trionfo della Morte” tra i nascituri di Careggi. Il nodo della cravatta intorno ai resti (una dissacrazione)
è un’osservazione del contrasto, di amara ironia. Il bambino che trascina
(il proprio?) funerale è una bellissima immagine filmica metafora di
una solitudine infantile che vive dentro i muri d’una incomunicabilità dei propri sentimenti col mondo adulto.
Dopo, nell’esperienza dell’insegnamento Viviano dirà “senza che nessuna generazione faccia
davvero tesoro dell’esperienza” proprio per l’impossibilità di sapere “cosa sogni un cieco dalla nascita”.
Inoltrandomi nella lettura sono conquistata dalla profonda conoscenza dell’umano, in questo caso del
protagonista, che non lascia adito a fraintesi. Tutto il rapporto
amoroso è scevro di qualsiasi leziosità in una ossessiva ricerca
di risposte, da frammenti e ritagli di memorie, giungendo a verità
universali. I miracoli alla rovescia di cui abbonda il giorno,
ritornano come il Cimitero degli Inglesi a cadenzare il romanzo dove la
ricerca si scontra con l’inutilità delle ripetizioni come in un
substrato di disincanto e di assenza.
Le osservazioni che riguardano il giornale La Nazione ritrovato (anch’esso filo d’una suspence che si articola con sapienza dentro le pagine) sono spunti di
riflessione sugli immutabili comportamenti umani e il senso di straniamento di
Viviano è reso in poche battute senza concessioni e senza appello con
una crudezza indagatoria davvero interessante.
La ricerca di sé attraverso la memoria del padre (quasi un Virgilio che lo guidi a districarsi nel
labirinto dell’essere) è dentro la città, la storia, il quotidiano, il
pensiero, il saputo e l’incomprensibile.
I diversi ripetuti riferimenti su notizie riguardanti il Gruppo Donatello riesumano vicende di una umanità
dispersa o scomparsa proponendo un allucinatorio dilatarsi del
tempo. Leggendo si respira l’odore ad una città antica, fatta di gente
semplice, artisti e artigiani, gente forse diversa da quella di
oggi. Si respira l’aria di Pratolini in una Firenze fatta di persone che
quasi non s’incontrano più.
Libro denso, significativo. Dove il protagonista
percorrendo le strade dell’emozione ricostruisce la motivazione
esistenziale, una salvifica ricerca attraverso la scrittura. Un
riscatto percepito attraverso l’osservazione e la conoscenza. La Piazza SS.
Annunziata, luogo ricco di storia e di presenze, si anima dell’anima
del protagonista i cui pensieri sul Caos provocano una
catarsi e il funerale, i colori, i cani, la dissacrazione, l’architettura sono
fusi in un affresco di parole, emozionante.
“Il concetto del divenire biologico al quale l’uomo si è sempre ritenuto estraneo rintanandosi
nell’alibi di credenze ancestrali” è un concetto che condivido.
Il giallo dell’uccisione della modella che viene via via a completarsi attraverso piccoli misteriosi
flashes è sapientemente inserito a mantenere l’intrigante
curiosità del lettore fin dall’inizio. Un romanzo complesso e
avvincente, che si snoda
sapientemente in uno stile di scrittura riconoscibile. Liliana Ugolini
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