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  PREFAZIONE DEL LIBRO "L'INDEGNITÀ A SUCCEDERE" DI ROBERTO R. CORSI  

 
SALUBRI RIDONDANZE

Semmai dovessimo concepire uno spazio di appartenenza - se preferite, d’identità interiore -, a somiglianza di luogo sacro, incontaminato dall’uomo e dalle feci del suo vivere (come Delos fu per Apollo dove, inibite nascita e morte, levatrici e caronti si affannavano incrociandosi verso la vicina isoletta di Reneia), proprio per l’estraneità del luogo alle successioni umane, agli ansiosi respiri pulsati dalla natura, ma nondimeno vitale e vivace per il pensiero in queste distillato al riparo dei vorticosi risucchi, azzarderei nel dire che il monachesimo apollineo di Roberto R. Corsi (eserghi e citazioni di Pasolini, Rilke, Zanzotto – versi dei Poeti evocati o invocati in corsivo -, confidenze musicali con Mahler, Berg, Bartok, Brahms, inseminazioni filosofiche con Zenone - di Elea -, Protagora, Pitagora), non potrebbe trovare opportuna e conveniente residenza se non nella poesia intesa come intuizione, ristrutturazione emotiva in impronte geroglifiche, di una nebulosa e confusa realtà che, per quanto respinta, ripudiata, è assunta e sudata dall’autore nell’alambicco della mente, ideografata nella proiezione in logogrammi e musicata con certezza accortamente equilibrata nel lessico e nella sintassi, adattati e docilmente piegati alla forma pur senza ricorrere a formule precocemente invecchiate di un termidoro necessario quanto tragico e catartico.

Il senso, accompagnato da un’inclinazione poetica ravvisata fin dai versi della prima sezione del testo, ora significato, più spesso significante, circola intensamente nel suo sangue con manifesta evidenza:

Luoghi del cielo ove il tuo / nome non è che gialla / zigrinatura, resina / del tramonto alabastro.

E ancora più avanti:

Ma non è che strumento, rituale di parola / con cui saggi la frusta / sul mio petto, quando lo vuoi aderente / ad ogni tua ferita…

Ma l’autore è essere biologico, esposto ai venti e alle tempeste della vita, alle turbolenze del sangue, alla fornace dei sentimenti: e anche al panico di una memoria in cui tutto converge e si stipa sigillando esperienze che pure non appartengono al suo ancor breve percorso esistenziale. Impasto ematico coagulato da un estetico (mai estatico) tormento che sulla pietrosa isola violentata dai venti (mentalmente abitata), non ha domicilio e forse egli vive ormai precocemente la stanchezza del pensiero (non il proprio ma quello assunto per retaggio liturgico), il nomadismo spirituale imposto dal mutamenti dei climi o, forse, l’indegnità a succedere (per dirla con il titolo di questa raccolta), o a succedersi per quando maturato nelle carestie stagionali del suo e nostro tempo: il faticoso bagaglio generazionale, il dover distinguere, separare e riannodare nel vissuto le inconciliabili distanze tra le spiagge di Delos (e delle improbabili Nausicaa) con le sponde affollate della terraferma regolate da Maestri o Direttori d’Orchestra nei quali egli non riconosce l’arbitrio a rappresentare quella musica raggiante percepita come catarsi dell’accidente di essere nato (e fino a quando non è colto il valore di quella forza brutalmente rispedita al mittente).

Appare dunque il desiderio intenzionale di un ascolto sinfonico dell’esistenza, in cui il tempo sia tutto compresso nel tempo musicale, spazio creativo con tutto il bagagliaio di cui dovrebbe munirsi il poeta, e che in Roberto R. Corsi è limpidamente presente, tangibilmente impresso nei versi a volte leggeri come massime bibliche, in altri distesi e apparentemente aggrovigliati nella necessità di proclamare il suo essere poeta, il suo voler essere uomo, l’inconciliabilità del conciliabile:

senza un pretesto aereo, tremante / mandolino cui risponda voce, fonema, / assenso vivente, agganciato / alle zolle malate.

Un atteggiamento insolito, sia nel suo persistere uomo colto che nel disporsi poetico, coraggiosamente inattuale (nel senso che una certa prevalente poesia, freatica alle emozioni, mira più a raccogliersi in cornici in cui tutto può indugiare per critica compiacente) senza armistizi o cedimenti all’intimismo, o a compiacimenti lirici, e nello stesso tempo, malgrado la musicalità indulgente (ma forse solo musicalità della musica) con densità lessicale brillante di risonanze suggestive, di rimandi ad altro ai limiti dei confini oltre i quali vita e morte soggiacciono alla descrizione: superando ogni rischio di immediatezza e di verosimiglianza dei manifesti esistenziali e degli eventi narrati, così come nella cadenza del sussurrato esclude ogni sospetto di una retorica banalità dell’epos..

Scattavo foto alla povera pietra / costretta ai fianchi della sua distanza, / irrisa dalle nuvole. / Sdraiavo i pensieri su prati innocenti / profetici di valeriana – soltanto al ritorno / seppe il costato le tue frecce.

Il titolo di questa prefazione propone, provocatoriamente irriverente per il lettore, poiché esprime contrade della creatività sbrigativamente marchiate dai butteri della critica, un esercizio di lettura all’interno del quale si riconosca il tentativo riuscito dell’autore intimando sintassi e lessico come un esperto direttore d’orchestra, o orchestrale dai sanguigni virtuosismi, evocando (con l’aggravante di essere esecutore e compositore della sua musica) il tentativo antico proiettato nel suo vivere, d’ intendere i feticci del suo tempo; sforzo destinato all’incompiutezza per nostalgia di altri tempi, di altro: ripudiando catalogazioni negli aspetti della vita in cui l’umano è facilmente saziabile e, di contro, percependo la forte esigenza, talvolta teatrale, di una coralità classica, di scene e quinte invocanti un dolente dovere risolto nella distanza da un tempo che non appartiene:

Il dolore metodico, affilato / che da te a me promana per insonnie, / Sembra esprimersi in neri stuoli d’alghe / morenti sulla riva alle bestemmie / Di bagnini e bagnanti. / Come il mare, ti spurghi / di metallica cruda flatulenza / E insegni la follia / alla vergine brezza del mattino.

Talvolta affiora nella poesia del Corsi una certa apparente icasticità delle immagini, la minuziosità d’inutili informazioni, la rigorosa pertinenza di considerazioni spesso con furioso influsso critico, a volte con dolente meditazione etica, ma la loro incidenza è di riverbero, e per quanto ogni simbolo una volta immesso in circolazione agisca proprio perché in quel momento non è in grado di affermare in cosa potrà consistere la sua identità o il suo divenire nell’attimo successivo: principi di depistamento accuratamente inseriti, come i versi evocati dei Poeti, le stesse epigrafi distribuite nel testo e anche, direi, i sottintesi maneggi del cuore o della carne, ma tutto questo nella sua salubre ridondanza si fa armonia nelle molteplici coordinate di scrittura (di lettura) in un concerto grosso (caro al Corsi) del testo come contesto aperto alle molteplicità del senso ( e del non senso).

                              Paolo Codazzi



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