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  RECENSIONE DEL LIBRO "SALTERIO PER VOCE SOLA" DI LORELLA ROTONDI  

 
FOSSILI MUTAZIONI

Nonostante i letarghi obbligati imposti dall’umano pensante alla memoria, ostinatamente occultando gli elementi distintivi all’origine dei retaggi emotivi e delle debolezze caratteriali, in certe stagioni della vita i depositi più profondi imprevedibilmente salgono resistendo ad ogni tentativo di manipolazione o annullamento. E la mente a lungo flagellata, purgata delle memorie, dominata nella lettura da lenti corrette, recupera la sua autonomia concedendosi un bagno catartico nella libertà di frugare tra i ricordi svincolata da qualsiasi opportunismo emotivo.


A lungo parlerò di te
sarà la carne tua
a farlo per me
Quella che mi presi
smagliandoti il ventre giovane.

In quel labirinto
il pentagramma
delle nostre canzoni
Delle urla e del silenzio.

Io sono il gatto d’aprile
- ricordi? -
dimenticato dal temporale
Ribelle al gioco grave.


In questi lucidi versi (pag. 20), del prezioso volumetto di poesia, “Salterio per voce sola” (Bandecchi & Vivaldi editori, Pontedera 2010), Lorella Rotondi manifesta l’emergenza della catarsi per sostenere la fluidità del verso senza rimuovere l’apprensione per il timore delle ferite che la violenza a lungo subita dalla memoria potrà aprire nella sua anima poetica e nella sua psiche d’animale pensante, percependo l’occorrenza di svelare quell’individualità modellatrice dell’esistenza che affonda la matrice nelle memorie più antiche, inevitabili fondamenta della casa caratteriale dell’adulto.


Che terra di sassi
e di vento in tempesta
deve essere la tua

Se t’è bastato
lasciare qualche
vuoto vestito nell’armadio

A risarcire il tempo
che ti ho abitato.

Metto mano a me stessa
faccio spazio
alla croce e alla luce.


Anche in questi versi (pag. 21) l’autrice rivela quanto sia stato duro, ma allo stesso tempo necessariamente felice – fossili mutazioni – rompere l’omertà della memoria: e lo fa con grazia semantica e quiete sintattica, proprie della consapevolezza, quasi chirurgica, necessarie alle vere scelte.

A ragione, Giuseppe Panella, prefatore di questa raccolta di versi, indugia sul significato del termine “salterio”, riportato nel titolo, poiché in questa definizione, testimoniata dall’altra parte del titolo “ per voce sola “, o anche, salterio per sola voce (si potrebbe interpretare riferendosi non alle prescrizioni di lettura di un salterio ma, al contrario, alla volontà dell’autrice di subordinare il modello alla sua voce), credo si governi tutto il complesso interpretativo di questa recente opera di un poeta che in molte altre occasioni ha stabilito il codice di un impegno non solo creativo, bensì piuttosto esercitato come forma di laica religiosità attorno a tutto il maneggio (nel senso equino) culturale, sia come orante, sia, meno spesso, come celebrante.

Un salterio, dunque, intarsiato nella mente di Lorella, ripartito in due sezioni (Ventinove stanze sul canto della “dolorosa madre”, Gomitoli di parole ora fiocchi di neve sul tiepido mare), a prima vista emotivamente disgiunte quasi a formare due testi autonomi, ma in realtà fuse da unico magma: incandescente, bruciante nella prima sezione, raffreddato nella tiepida ragione della catarsi nell’altra, tutto padroneggiato nei versi di notevole respiro poetico.


Ora puoi guardare
come fossero il bucato
Del vicino e suo il profumo
i miei bianchi sospiri
Di pena e ansia
appesi al filo
dei tuoi pensieri.

(I° sez. pag. 42)


Le case vuote
appartengono alla luce.

Nel pulviscolo d’aria
la luce si fa strada
fra i rimandi del tempo.

La luce non si cura
dei transiti comunque brevi
chiocciolio comunque tenue
d’esistenze fugaci
quasi coriandoli d’aria.

A chi appartengono le case vuote?

(II° sez. pag. 57)


Il momento formativo o deformante dell’esistenza, chiuso a qualsiasi successiva revisione, e conservato gelosamente come un ciborio necessario a riconoscersi nello specchio dei caratteri e delle emozioni che da questa primigenia traggono la loro originalità, trova consensi in questi versi (pag. 22).


Comunque d’amore
sono i tradimenti.

Destini di croci
e crocevia
di lutti rumorosi
o silenziosamente bianchi.

D’incanto disabitato
il danzatore immobile
si rifugia marmotta
Dentro di sé.

Muta resistenza
alle schegge del tempo
dolorosamente mutilato.

Lame e agrifogli
dappertutto.


Un aspetto qualificante della poesia di Lorella Rotondi, formalmente allineata a incisioni propagate dai movimenti poetici degli anni Sessanta, ma da lei accortamente depurate dell’ermetismo formale che in seguito guastò molti poeti, è l’assoluta assenza, o non presenza, di atteggiamenti “estasiatici” tanto comuni e noiosi in certa poesia, generalmente femminile (le generalizzazioni, spesso, risultano fallaci, ma esprimere la propria opinione è legittimo). Non ci sono in queste settantaquattro pagine di malinconico (non melanconico) e nostalgico canto, urla d’amore o d’odio, cedevoli piagnistei, molli ammiccamenti alle emozioni, c’è invece, al contrario, la forza virile di un amore mancato, ma proprio per questo amore vero, foggiato sull’incudine dei ricordi e al cospetto del quale qualsiasi altro sentimento diviene ragionevole conseguenza.


Potrebbe, sai
nascere un fiore
e già domani
essere sentiero verde
di formiche rosse
o pegno d’amore
di una giovane passione
o il profumo di un giorno
e di un sempre
per il cantastorie
che sono.
(pag. 63).


In molte pagine il riferimento all’amore materno, questo mitico amore primordiale, a volte pare negato, altre contraddetto, ma alla fine manifesto in tutta la sua dolorosa compostezza, come in una vittima che lentamente scopre, nel rimasticare certe immagini e rammentando fotogrammi esemplari, di aver acquisito alcuni dei caratteri del suo presunto carnefice.


Gelida ordivi d’andare
poi a dipingere visioni
Ché quella bimbetta tonda
di cinque anni

Non dava abbastanza soddisfazioni.

(pag. 30).


La cartella clinica che si ricava da questa raccolta di Lorella Rotondi, è una solida consapevolezza poetica e umana, scevra da balbuzie di maniera o inseminazioni artificiali di problematiche sociali, nonché la coraggiosa consapevolezza che il romanzo o il poema di formazione generalmente non ascolta chiamate alla vita, e nemmeno la morte lo conclude, poiché continua nel vocio del coro umano, nelle inarrestabili mutazioni fossili; semmai il vero intento dell’autrice è quello di “sacralizzare” la sua individualità come essere e come poeta, svincolata dalla moltitudine dei luoghi comuni, dai topos del conformismo, riconoscendosi alla fine finalmente diversa e felicemente grata verso le esperienze che per quanto brucianti e laceranti sono le vere “a priori” delle vite degli adulti.

                              Paolo Codazzi



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